Formaggi magri e formaggi grassi, stagionati e freschi, a pasta dura o a pasta molle: le mille e una tipologia di una delle proteine più amate dagli italiani
La tradizione casearia italiana è una delle più ricche e rinomate al mondo: sono più di 450, infatti, le varietà di formaggio che la nostra cultura gastronomica può vantare. Un patrimonio spesso sottovalutato e talvolta conosciuto solo superficialmente anche tra gli appassionati: d’altra parte, se si pensa alla moltitudine di sapori, profumi, aromi e forme che derivano da un’unica materia prima – il latte – si rischia di perdersi in un labirinto di nomi pittoreschi, anche ricette e pascoli remoti.
Cerchiamo allora di fare un po’ d’ordine in questo golosissimo mondo: quali si annoverano tra i prodotti italiani più famosi? I formaggi magri quali sono? quali caratteristiche deve avere un vero formaggio stagionato?
Il latte non è tutto uguale
Cosa rende un formaggio diverso dall’altro? La prima, fondamentale distinzione va fatta all’origine, prima ancora che il formaggio “nasca”. A seconda del tipo di latte utilizzato, infatti, cambiano le caratteristiche organolettiche e nutrizionali del prodotto: è noto, ad esempio, che dal latte caprino si ricavano formaggi dal gusto deciso e dalle ottime proprietà nutritive (oltre che altamente digeribili) mentre quello vaccino dà un formaggio delicato e versatile; il latte di pecora produce un formaggio imbattibile in quanto a cremosità, ma proprio questa sua caratteristica – dovuta a un’alta percentuale di grassi – lo rende meno adatto a soggetti in sovrappeso o a chi soffre di ipercolesterolemia. Non dimentichiamo che anche il latte di bufala è un’importante risorsa dell’industria casearia italiana (chi resiste alla celeberrima mozzarella di bufala campana, una delle D.O.P. più usate del paese?). E, per finire, molte delle eccellenze della nostra penisola sono frutto di un latte misto: oltre alle combinazioni vacca-pecora e vacca-capra, molto comune è quella vacca-pecora-capra.
Duro o morbido?
Appena munto, il latte viene lavorato e riscaldato per avviare il processo di coagulazione; la cagliata viene poi rotta per permettere la separazione dal siero: più piccoli sono i pezzi che si formano, maggiore è la quantità di siero eliminato e più asciutto e duro sarà il formaggio ottenuto. Ecco dunque una seconda distinzione: formaggi a pasta dura (quelli con un contenuto di acqua inferiore al 35%, come nel parmigiano reggiano) e a pasta morbida (in cui la percentuale di acqua è superiore al 45%; ne è un tipico esempio la robiola). Alcuni formaggi, poi, si collocano in una posizione intermedia, come ad esempio il Valpadana, il più noto provolone D.O.P., semiduro a pasta filante.
Anche il formaggio “cuoce”
Una volta terminata la rottura della cagliata, la pasta che si ottiene si riscalda di norma fino a 46-55°C, allo scopo di ottenere una consistenza ancora più densa (il calore facilita infatti la separazione del siero dal caglio). In base alla temperatura di lavorazione, quindi, possiamo distinguere i formaggi in:
• formaggi a pasta semicruda, con un riscaldamento della cagliata fino a un massimo di 46°C. È il caso, ad esempio, del pecorino sardo, della fontina valdostana – altro formaggio D.O.P. di antiche origini – e della ben nota scamorza.
• formaggi a pasta cotta, con un riscaldamento della cagliata che va da un minimo di 46°C a un massimo di 55°C. Tutti riconosceranno in questa tipologia il goloso pecorino romano, protagonista di innumerevoli ricette della tradizione culinaria centroitaliana.
Se ciò non avviene, ovvero se non c’è riscaldamento dopo la rottura della cagliata, il formaggio viene identificato come a pasta cruda (per restare in tema di pecorini, si può portare ad esempio quello siciliano o di quello canestrato pugliese, formaggi dalla pasta bianca e molto piccante).
Croce e delizia della linea
Come ben sappiamo, è importante non abusare del consumo di formaggi, principalmente per via del sostanzioso apporto lipidico che introducono nella nostra dieta. Non tutti i prodotti caseari contengono grasso nella stessa percentuale: è bene perciò fare le dovute distinzioni tra
• formaggi magri (meno del 20% di grassi sulla sostanza secca, ovvero escludendo la percentuale di acqua): sono le mozzarelle e le ricotte prodotte con latte scremato.
• formaggi semigrassi (tra il 20 e il 42% di grassi): si tratta, ad esempio, dell’asiago, prodotto nell’omonimo altopiano in Veneto e del Grana Padano.
• formaggi grassi (oltre il 42% di grassi): accade con i formaggi lavorati a partire da latte intero e non scremato (tra gli altri il taleggio, il caciocavallo e il “famigerato” mascarpone, indispensabile per la preparazione del tiramisù).
L’importanza del riposo
In alcuni casi, però, la caratteristica principale del formaggio risiede nella sua stagionatura. Si pensi al parmigiano reggiano D.O.P., che può essere lasciato a riposo da uno a tre anni, durante i quali si richiede una cura meticolosa (le forme vengono spazzolate e capovolte ogni due settimane). Alcuni formaggi richiedono una stagionatura più breve, ma ugualmente complessa: per portare a compimento quella del gorgonzola, ad esempio, si selezionano e si aggiungono alla lavorazione delle particolari muffe e fermenti lattici, che sostituiscono l’antico processo di stagionatura in grotte naturali. Solo se si completa la maturazione del formaggio tra le 24 ore e i 15 giorni successivi al momento in cui esso inizia a riposare, si parla di formaggio fresco: oltre alla burrata, tipica delle Murge, citiamo ancora il ben noto mascarpone, che deve in parte la sua naturale dolcezza alla maturazione di un solo unico giorno.
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